lunedì 26 luglio 2010

L'acchiappadenti


Derek Thompson è un campione di hockey su ghiaccio soprannominato “La Fata del Dentino” perché spesso e volentieri durante gli scontri sul campo di gioco fa saltare i denti degli avversari. Derek però è anche molto bravo in un'altra attività: infrangere i sogni e le speranze dei più piccoli. È quello che cerca di fare anche con la figlia più piccola di Carly ( sua attuale compagna) alla quale è caduto un dentino e attende il dollaro in cambio. Viene interrotto ma l'intenzione c'era e quindi…lo attende una punizione. Viene trasportato nel mondo delle fiabe e costretto a diventare per un certo periodo una Fata del Dentino con tanto di ali e attrezzatura ad hoc.
Capita quasi a tutti prima o poi nel ‘magico' mondo di Hollywood di ritrovarsi a fare un film con e per i bambini. Questa volta è il turno di Dwayne “The Rock” Johnson. Intendiamoci: i muscoli restano gli stessi ma è il contesto che cambia decisamente. Neanche il fan più perverso dell'attore avrebbe potuto pensarlo un giorno in un film con addosso un tutù rosa. E invece… C'è però modo e modo di cedere a questo tipo di contratti e, visto l'esito complessivo, non si può dire che Johnson abbia ceduto solo quando ha visto l'assegno per la scrittura.
Perché il film (se visto come un prodotto per famiglie) funziona abbastanza. Ha quel pizzico di follia e di surreale necessari per rendere accettabile la storia (magari ammiccando un po' ad Harry Potter nella scena con un divertente e divertito Billy Crystal). Presenta poi un percorso di avvicinamento adulto/ragazzi (in particolare con il figlio più grande di Carly) che ricorda tanto i film Disney anni Sessanta (tipo Il cowboy con il velo da sposa).
Gli adulti che accompagnano i più piccoli possono poi ritrovare una vecchia (si fa per dire) gloria come Julie Andrews nei panni di una Regina delle Fate in versione manageriale e determinata a non farsi mai interrompere quando parla (il che con Derek avviene regolarmente).

Lei è troppo per me


Kirk Kettner è un ragazzo esile e impacciato, impiegato come agente della sicurezza in aeroporto. Esperto nel gestire l’ordine sul lavoro è un vero disastro nella vita privata, dove è piantato da una fidanzata petulante. Convinto di essere destinato a una vita senza amore, è folgorato al checkpoint da Molly, bella, bionda e decisa a dire sì proprio a lui. Salvata dalle attenzioni moleste del suo capo, Molly resta folgorata dalla gentilezza di Kirk e decide di dargli un appuntamento. Una partita di hockey e una cena romantica dopo, i due ragazzi si innamorano tra lo stupore di amici e familiari, che credono improbabile l’unione di bellezza e ordinarietà. Tra alti e bassi, tra voli da prendere e voli da perdere, Kirk e Molly vinceranno perplessità e scetticismi, facendo strike degli ostacoli.
Opera prima di Jim Field Smith, Lei è troppo per me è una commedia sentimentale che riflette sul pregiudizio indotto dalla bellezza o dall’esserne privi. I due protagonisti incarnano sullo schermo la bella e il nerd, condizioni esistenziali contrarie (eppure scopriremo compatibili) che subiscono nel film lo stesso trattamento. Il felice debutto del regista inglese chiamato alla corte di Hollywood lavora sull’accoglienza riservata dal mondo a coloro che sono ordinari o straordinari. Kirk è il ragazzo più mite e pavido del mondo che porta con gravità l’impegno di una faccia indifferente e di un profilo debole, Molly è una giovane donna raffinata che infonde nella pienezza greve della carne una candida levità. Per caso o per azzardo si incontrano in un non luogo, l’aeroporto in cui è occupato lui, e si piacciono contro ogni convenzione, che vuole il nerd introverso e misantropo e la pupa preda d’elezione del ragazzone di turno.
Di fatto, secondo inflessibile clichè di genere, Kirk e Molly impersonano la coppia che non può stare insieme. Nell’eccezione, che contravviene la regola fissata dalla romantic comedy, sta allora l’eccezionalità di questo film che lavora per innamorare le parti altrove destinate a ignorarsi. Per confrontare credibilmente i due mondi, Kirk dovrà necessariamente scoprire di essere più attraente di quanto abbia mai stimato e Molly di essere meno perfetta di quanto sia mai stata giudicata. La ricerca della misura e il tentativo degli amanti di pareggiare lo svantaggio o di accorciare il vantaggio producono da una parte una commedia improntata sulla relazione ideale e dall’altra una comicità bassamente corporale, che sembra omaggiare il cinema politically uncorrect dei fratelli Farrelly.
Alla fine in Lei è troppo per me sarà però la commedia a soppiantare il comico. Kirk si assumerà la responsabilità della crescita superando la condizione infantile di eterno nerd single. E reprimendo la sua prossima erezione volerà con la sua bionda verso il più rosso dei tramonti.

L'imbroglio nel lenzuolo

Sicilia, 1905. Federico studia contro voglia medicina e sogna con tutto il cuore di scrivere storie d'amore per il cinematografo, meraviglia di luce che riflette la vita su un lenzuolo. Commosso come i suoi paesani dalla magia del cinema, Federico abbandona gli studi e si improvvisa direttore di scena per Don Gennarino Pecoraro, vizioso produttore napoletano deciso a produrre un film tutto suo. Stufo di treni che arrivano alla stazione e di operai all'uscita dalle fabbriche, Don Gennarino commissiona al ragazzo una storia pruriginosa che ‘scopra' aspiranti attrici e ne mostri generosamente le grazie. Ispirato dal bagno biblico della “Casta Susanna”, Federico sceglie di immortalare le carni della bella Marianna, fattucchiera imbrogliona e lavandaia analfabeta di una scrittrice torinese. Il successo del film creerà non pochi problemi alla protagonista inconsapevole, additata e disonorata dal paese almeno fino a quando “u'mbrogghiu nt'o linzolu” non verrà rivelato. Tratto dal romanzo omonimo di Francesco Costa, L'imbroglio nel lenzuolo recupera e racconta la luce dei Lumière e lo stupore che produsse nei primi spettatori. Dieci anni dopo le prime immagini proiettate a Parigi nel Boulevard des Capucines, il cinematografo approdò in Sicilia e innamorò fino alle lacrime contadini, comari e provinciali inurbati, che avvertirono l'impulso irrefrenabili di alzarsi dalle sedie per evitare che un treno in corsa gli piombasse addosso. Diretto da Alfonso Arau (Il profumo del mosto selvatico) e prodotto ed interpretato da Maria Grazia Cucinotta, L'imbroglio nel lenzuolo è ambientato nell'Italia del 1905, quando le proiezioni cinematografiche poterono finalmente contare su un'industria efficiente, su apparecchi più perfezionati, su un repertorio di film ampio e variato, prendendosi la loro rivincita sullo spettacolo d'arte varia, al punto da occupare tutto lo spazio del programma e a provocare la trasformazione di molti locali di varietà in veri e propri cinematografi. Non dimostrando alcun senso di soggezione o di inferiorità nei confronti del vaudeville, il cinema riuscì ad integrarsi facendo leva, come il Gennarino di Ernesto Mahieux, su spettacoli pruriginosi e altrettanto promettenti di quelli offerti da ballerine o cantanti dal nome francese che si esibivano dal vivo. Rimpiazzata da femmine di luci, la vedette di turno cedette passo e scena a un'apparizione piuttosto che al suo manifestarsi vero e proprio. La “casta Susanna” della Cucinotta incarna proprio una di quelle ombre che galvanizzarono il pubblico maschile, solleticandone la curiosità voyeuristica. Sullo sfondo di una terra sospesa tra leggende e superstizioni, Arau gira un melodramma popolare che si esprime in maniera didascalica e che declina (e spreca) le potenzialità del soggetto nell'ammiccamento pruriginoso e lezioso. Pur mantenendo un livello di sobrietà visiva, il regista messicano non riesce a infondere vitalità a quanto scorre “sul lenzuolo”. La fotografia di Storaro non basta a risolvere la questione della profondità temporale e le pur nobili suggestioni di un film modesto, che tradisce un'evidente vocazione televisiva e non brilla certo per consapevolezza di sceneggiatura o per slancio interpretativo. Fanno eccezione la performance di Ernesto Mahieux e di Giselda Volodi, aristocratica bellezza da promuovere a ruoli di primo piano.