martedì 4 maggio 2010

Fratelli d'Italia

Uno sguardo alle vite di tre adolescenti di famiglie immigrate in Italia che frequentano un istituto tecnico di Ostia. Alin è un ragazzo rumeno che vive in Italia da quattro anni. Ha problemi a scuola coi compagni di classe e con gli insegnanti, problemi che preferisce risolvere disertando i collettivi e andando in giro con il motorino o a ballare in discoteca. Masha è una ragazza bielorussa adottata da una famiglia di italiani, dopo che il padre l'ha disconosciuta dal carcere e la madre è stata interdetta perché la picchiava. Da quando ha ritrovato contatti con il fratello Ilya, Masha non pensa ad altro che ad andare a trovarlo, ma i problemi sono tanti: dai tempi burocratici dell'ambasciata ai timori per un ritorno in Bielorussia, passando per la gelosia del ragazzo italiano. Nader è egiziano di origini ma italiano di seconda generazione. È perfettamente introdotto nella vita di periferia con gli amici e con una ragazza che ama, ma il suo atteggiamento ribelle gli crea diversi problemi coi professori e coi genitori. Da un progetto di educazione all'audiovisivo rivolto alle scuole superiori, Claudio Giovannesi aveva tratto nel 2007 un mediometraggio incentrato sul rapporto fra un ragazzo rumeno e i compagni di classe, Welcome Bucarest, adesso confluito come primo frammento di questo Fratelli d'Italia assieme al ritratto di altri due adolescenti immigrati. La genesi è molto simile a quella del film La classe – Entre les murs, anche se gli esiti sono differenti. Alla base dell'ottenimento di un realismo che abbia valore sociologico e antropologico, c'è un rapporto di fiducia e di convivenza pacifica che gli operatori hanno instaurato con gli alunni della scuola attraverso una serie di esperienze e di laboratori di lungo periodo. Rispetto al film Palma d'Oro di Laurent Cantet, dove la macchina da presa restava sempre “fra le mura” dell'istituto scolastico per mappare la violenza reale e simbolica tanto dei ragazzi delle banlieues, quanto delle abitudini e delle frustrazioni del corpo insegnante, a Giovannesi, ex allievo del Centro Sperimentale, interessa raccontare quella babele di civiltà su cui si sta costruendo il multiculturalismo in Italia. La differenza è fondamentale: i ragazzi di Cantet recitano una parte, si introducono in un personaggio che, per quanto vicino o lontano possa essere dal loro carattere, resta frutto di una messa in scena, di una simulazione. Nel documentario di Giovannesi, gli studenti della scuola di Ostia vengono colti nella vita di tutti i giorni e la bravura degli operatori sta nel riuscire a farsi presenza amichevole, quotidiana e perciò invisibile, tanto da riuscire a cogliere parole e sentenze senza filtro, imbarazzo o forzature da parte tanto dei ragazzi quanto degli adulti coinvolti. Non vi è partecipazione o commento sulle azioni dei tre protagonisti se non attraverso gli interventi indiretti sul montaggio e sulla colonna sonora. Ma più trasparente è il discorso e più difficile diviene costruire un messaggio. Se da un lato il film documenta efficacemente i problemi dell'integrazione e del retaggio culturale dei giovani che vivono il forte dissidio di trovarsi accentrati fra due culture di fronte al quale reagiscono con la paura o con un atteggiamento ribelle, dall'altro una tale ricerca di immagini “oneste”, trasparenti, mette fuori campo il punto di vista e le responsabilità della società e delle istituzioni in tale processo. Corollario involontario di questo porsi come occhio indiscreto e impassibile (fly on the wall nella dicitura americana) è quello di rappresentare lo stesso tipo di inerzia delle istituzioni, di coloro che osservano i problemi del processo di integrazione senza intervenire. A questa apertura, e al rischio di violare la sacralità dello studio perseguito dal suo documentario, Giovannesi preferisce la sicurezza delle immagini delle onde che si rifrangono sul litorale di Ostia, diaframma fra i vari episodi del documentario e apertura dell'orizzonte delle possibilità sui sogni di questi ragazzi e sul futuro di una società multietnica.

Christine Cristina

La vita di Christine de Pizan, italiana cresciuta alla corte di Carlo V di Francia fra stimoli culturali di ogni sorta e poi abbandonata al suo destino assieme ai figli Marie e Jean dopo la morte del Re Saggio. Quando si vede rifiutata ospitalità dalle corti nobiliari più vicine, Christine si addentra negli umili quartieri parigini, dove trova la caritatevole ospitalità della lavandaia Thérèse e del menestrello Charleton. Quest'ultimo, un cantore ubriacone che suona il liuto e decanta versi licenziosi nelle taverne, si accorge della naturale propensione di Christine per la rima baciata e comincia a farsi comporre da lei dei versi per le sue esibizioni. Alle quali partecipa anche il prelato Jean de Gerson che, incuriosito dalla raffinatezza delle parole, desidera scoprirne la sorgente ed entra in contatto con Christine, proponendole nuove letture e incoraggiandola al poetare. I suoi toni, assieme raffinati e popolari, lirici e denigratori nei confronti di nobili e potenti, attirano però le ire del vacuo e vate poeta Gontier e degli organi di giustizia. Esordire come regista portandosi appresso l'aura di attrice simbolo del cinema italiano e il pesante fardello di quasi mezzo secolo della sua storia, è impresa ardua. E lo è ancor più cercare di riportare sul grande schermo un genere e un periodo storico poco in sintonia con i gusti del pubblico italiano e con i budget concessi al suo cinema: la biografia storica e il Medioevo. Di poco precedente ad un'eroina ben più conosciuta tanto agli storici quanto agli storici del cinema, Giovanna d'Arco, Christine de Pizan è in realtà un perfetto soggetto cinematografico, incarnazione di un protofemminismo che lotta per i propri figli e per un'arte sincera, popolare e, per questo, rivoluzionaria. L'idea vincente della Sandrelli e dei suoi sceneggiatori (coordinati da Furio Scarpelli, che di acuti sguardi sul contemporaneo se ne intende) è quella di farne una figura emblematica dello stato dell'arte e in particolare della contrapposizione fra arte sociale e arte di stato. La sua Christine è non a caso anche Cristina, donna che rivendica in tutto la sua condizione: il suo essere donna, madre, artista e italiana. Peccato quindi che la realizzazione finale del film non sia all'altezza dei suoi alti presupposti e che alla forza dell'ardore della sua eroina, la Sandrelli preferisca i toni pacati e le forme candide dell'operetta morale. Peccato che alcune scelte di regia, da una messa in scena un po' desueta, vicina ai vecchi sceneggiati televisivi, alla scelta di due protagonisti privi di carisma e di mordente come Alessio Boni e Amanda Sandrelli, confondano il poetico col prosaico, il popolare col modesto e l'universale con l'uniforme. Peccato, perché le pulsioni sovversive di Christine avrebbero meritato di più lo spirito del miglior cinema militante anziché il conformismo della televisione di stato.

Le ultime 56 ore

Cinque anni dopo l'intervento militare nei territori del Kosovo, molti membri dell'esercito italiano riportano gravi malformazioni e malattie tumorali. Di fronte all'agonia del marito, la dottoressa Ferri fa giurare a un altro reduce, il Colonnello Moresco, che farà qualunque cosa per far emergere la verità sulle implicazioni fra l'uranio degli armamenti bellici e la proliferazione dei tumori nell'esercito. Nella stessa città, Catania, il vicequestore Manfredi, un abile negoziatore poco incline ai protocolli della polizia, deve gestire una figlia adolescente e una crisi coniugale con una moglie che ama ancora. La tragicità del fato farà incrociare i destini del militare e del poliziotto all'interno di un ospedale. Nel cinema di genere vige una regola non scritta: non c'è niente che perori una causa umanitaria con più forza e disperazione di un sequestro condotto in nome di una battaglia civile. Nelle sue ultime 56 ore, Fragasso ha il tempo per rievocare tutto quel cinema d'azione incentrato sulle forze dello Stato che si ribellano contro le ingiustizie e i silenzi dello stesso. Ripercorrendo il sentiero tracciato non solo dal poliziottesco italico degli anni Settanta, ma anche da molto cinema americano contemporaneo come Il negoziatore, John Q e Inside Man, il film di Fragasso e della fidata compagna Rossella Drudi prende in ostaggio da più parti idee, ritmo, stile visivo e suggestioni narrative. La posta in gioco però si alza e i gesti estremi di questa cellula impazzita dello Stato non si fermano al sentimentalismo universale ma cercano una motivazione nella cronaca più attuale. Questo doppio registro, al contempo socio-politico e melodrammatico, si articola nelle storie parallele dei due personaggi protagonisti: più improntata alle logiche dell'action e degli affetti familiari quella dello sbirro Luca Lionello, più dalla parte dell'impegno e della sensibilizzazione quella del militare Gianmarco Tognazzi. Il loro incontro, ciò che in teoria costituirebbe il nucleo del film e che viene invece ritardato fino all'ultima parte, riflette gli stessi difetti della sovrastruttura e dell'incrocio più ampio fra impegno civile e logica di intrattenimento. Non si può dire che Fragasso manchi di coerenza: tanto le sequenze d'azione quanto quelle del melodramma familiare, tanto l'operazione di denuncia quanto la stima per le gerarchie e per il rispetto della disciplina, sono marcate dalla medesima enfasi, da una voce grossa e una brutale chiarezza di linguaggio. Tuttavia, il paradosso di tale solennità sia civica che ludica è che, fra l'esplosione di una granata e un testamento biologico, fra una scarica di mitra e un sequestro condotto in nome di una giusta causa, diviene difficile sciogliere ogni ambiguità in merito alla portata effettiva del messaggio del film. Quel che manca è (verrebbe ingenuamente da dire) capire chi sia il “cattivo”, contro chi si stiano dirigendo il peso delle accuse e la forza di tale grido. Il finale del film parrebbe tentare di definire in extremis questo aspetto, ma è l'abbraccio irrimediabile di cinema e istituzioni politiche a non permettere tali libertà e a far sì che ogni accusa precisa rimanga ben confinata nella zona franca della drammaturgia.

Puzzole alla riscossa

Dopo Viaggio al centro della terra 3D e Inkheart, Brendan Fraser torna sullo schermo in una divertente commedia per famiglie girata con incredibili e sofisticati effetti speciali. L’attore interpreta un costruttore impegnato - suo malgrado - in una inusuale guerra contro una moltitudine di animaletti, giustamente contrariati dalla presenza umana nel loro angolo incontaminato e fermamente determinati a contrastare ogni tentativo di costruzione.

Notte folle a Manhattan

Phil e Claire sono una coppia media, sposata con figli, stanziata in un medio quartiere residenziale di New York, alle prese con i problemi tipici di chi, a qualche anno dal matrimonio, soffre di un calo del desiderio e dell'affiatamento. Per rimediare decidono di passare una serata in grande stile in un ristorante esclusivo di Manhattan. Arrivati lì però scoprono che di trovare un posto non se ne parla nemmeno e, infastiditi da come il personale li tratti da nullità, dopo aver notato che nessuno rivendica un tavolo libero per due si fingono i legittimi prenotatori di quel posto. Questo scambio di identità innesca una girandola di equivoci, incidenti, fughe e travestimenti con al centro polizia corrotta, mafia locale e un politico con foto sconce da nascondere. La metropoli di notte come incubo, una prigione grande come una città senza via d'uscita se non l'arrivo del sole, dotata di suoi luoghi tipici e topici, caratterizzata da figure archetipe della persecuzione (i boss, i poliziotti corrotti, gli uomini rispettabili di giorno ma dalla doppia vita notturna...) è un classico del racconto americano. Ci è passato Scorsese, ci è passato Walter Hill e via via tutti coloro che volevano raccontare "l'altra New York". Si tratta di un processo normale, tutte le società in cui il tratto metropolitano è marcato tendono prima o poi a rappresentare il proprio nucleo pulsante attraverso una vita notturna speculare a quella di giorno, in cui le cose più normali diventano impossibili e in cui la vita non funziona come nel resto del tempo. Così da una prenotazione rubata in un ristorante e dal conseguente scambio di persona che ne deriva Shawn Levy (che di avventure notturne in modi segreti, specie al Museo, se ne intende) costruisce una pellicola girata in modo da calzare i due protagonisti. Purtroppo l'umorismo di Tina Fey e Steve Carrel fatica molto nella traduzione e nell'adattamento italiano, tuttavia anche nella versione nostrana rimane un ritmo impressionante, sviluppato lungo tutta la commedia e aiutato da un digitale capace di arrivare in qualsiasi anfratto, che le consente di andare oltre le singole storture disegnando un'avventura vera e propria, in cui spiccano piccoli momenti di geniale ilarità. In questo modo Notte folle a Manhattan diventa quasi una presa in giro degli altri incubi metropolitani newyorchesi, rivoltandone le figure tipiche e giocando con il suo umorismo su mode e modi di esporre di quei film. Alla fine però la parabola è sempre quella normalizzante all'americana, per la quale il viaggio, tutto interno a New York, è anche un percorso simbolico di un marito e una moglie che riscoprono le ragioni del loro affiatamento. In questo forse Notte folle a Manhattan ha il suo punto debole: nel non essere davvero "folle" (del resto il titolo originale è molto più semplicemente Date Night) come il suo umorismo potrebbe portarlo ad essere o come lo erano altri predecessori più drammatici. Al contrario è un percorso a grandi falcate verso la normalità che passa per il progressivo rifiuto di tutte le componenti "altre" della società che di volta in volta la coppia incarna o con cui entra in contatto.

Dear John

John Tyree è un soldato delle forze speciali in licenza tre settimane sulle spiagge dell'Atlantico. Savannah Curtis è una studentessa idealista in vacanza davanti allo stesso oceano. Stregati dalla luna, John e Savannah vivono tre settimane intense, si giurano amore eterno e si danno appuntamento l'anno successivo. Molti esami, missioni militari e lettere d'amore dopo, gli innamorati si ritroveranno per separarsi per sempre a causa dei drammatici fatti dell'undici settembre. John, fedele alla patria e alla bandiera, rinnova il suo impegno con l'esercito, soffocando devozione e intenzione nella sua amata. Rientrato dall'Afghanistan diversi anni dopo scoprirà però che il fuoco del loro sentimento non si è mai spento. Trasposizione dell'ennesimo romanzo lacrimoso di Nicholas Sparks, Dear John è un dramma incline al mèlo che prova a contrastare luna e saga di Stephenie Meyer, rappresentando la normalità di insicurezze post-adolescenziali a fronte di un contesto eccezionale e minaccioso. Se in The Twilight Saga la singolarità è data dalla natura di redivivo del protagonista, nel film di Lasse Hallström sono gli attacchi dell'undici settembre e la conseguente ‘rappresaglia' contro il terrorismo l'anomalia che interviene a separare gli amanti. Channing Tatum, virile e ‘ben piantato', è di fatto il rivale di Robert Pattinson, freak pallido rimpiazzato con un licantropo. Amanda Seyfried, sognatrice e virtuosa, è invece antagonista della più competente e meno conveniente Belle di Kristen Stewart. Ma se l'amore dannato di Edward e Belle li spingerà verso l'altare, più complesso sarà da realizzare il sentimento epistolare di un soldato e della sua giovane “sposa di guerra”, che sfideranno attentati, guerre e destino con la più rettilinea delle storie d'amore. Rettilinea almeno nelle intenzioni e contrastata quanto è inevitabile che sia in situazioni di emergenza. Il principio del film è quello della distanza fisica tra gli amanti, il proponimento è quel “rivediamoci qui tra un anno” che fa maturare la più asessuata delle attrazioni, la figura chiave la liberazione all'ultimo minuto dei sentimenti che ‘sopprime' ‘l'altro uomo' in carica con le ore chiaramente contate. La vellutata morbidezza dei protagonisti, della fotografia e delle parole di Sparks è lo strumento addizionale per dire del loro amore, il cui impossibile appagamento per ragioni belliche non diventa certo manifesto di grande umanità contro la guerra. Il dramma addomesticato (quanto un cucciolo di razza Akita) di Hallström è lontano dalla creativa sensibilità melodrammatica di Addio alle armi o dalla ricostruzione visiva di sentimenti senza freni. Con Dear John siamo piuttosto dalle parti degli “strappalacrime” e della chimica delle emozioni. Onde e gabbiani, luci e riflessi, muscoli tonici e curve carezzevoli, concorrono a produrre un

Aiuto Vampiro

Dopo quella di Twilight, una nuova saga vampiresca arriva sugli schermi a rielaborare e contaminare - con altri generi - un mito vecchio di secoli. Anche in questo caso l'origine è in una serie di libri di successo, scritti da Darren Shan - che è anche il nome del protagonista della vicenda - e anche in questo caso i personaggi chiave sono dei teenager alla ricerca di un proprio ruolo nel mondo. Darren è un ragazzo modello, ma talvolta è traviato dal suo migliore amico Steve, piuttosto scapestrato. Assieme a lui, nonostante le reprimende del suo insegnante, Darren va a un misterioso Freak Show appena giunto in città. Il fatto è che Steve è molto interessato ai vampiri e Darren ai ragni, per cui un Freak Show - il Cirque du Freak - è per loro un must. Lo spettacolo è strano: il primo a comparire è un licantropo che strappa di netto un avambraccio di una spettatrice che si rivela essere uno dei freak dello show, capace di rigenerare l’arto perduto. L'attrazione più importante è Larten che si esibisce con Madame Octa, un ragnone velenoso. Steve è sicuro che Larten sia un vampiro. All’arrivo della polizia, Steve e Darren fuggono. Quest’ultimo si rifugia nell’armadio del camerino di Larten e lo scorge discutere con un certo Gavner: apprende che c’è una sanguinosa lotta in corso tra fazioni di vampiri. Il cattivo è un certo Tiny: Gavner vorrebbe che Larten collaborasse nella lotta contro di lui, ma Larten vuole continuare a fare il suo spettacolino in pace. Dal suo nascondiglio, Darren vede Steve chiedere a Larten di diventare un vampiro, subendo un rifiuto perché il suo sangue sa di malvagio. Darren fugge, ma finisce momentaneamente tra le grinfie di Tiny, che ha un misterioso interesse per lui. Il ragno di Larten - rubato da Darren - punge Steve. Per salvarlo, Darren accetta di diventare l’aiutante di Larten, un aiuto vampiro: l’avventura di Darren nel mondo delle tenebre è solo cominciata. Più che sul sentimentale, come la saga di Twilight, questa punta sulla commedia, sul lato fiabesco dell’horror, pur risolvendosi comunque in una sorta di racconto di formazione, con due ragazzi sul punto di decidere cosa fare della propria vita: uno vorrebbe diventare un vampiro e lasciare tutto, perché in fondo non ha niente; l’altro ha tutto, ma non sa cosa vuole veramente. Il futuro di perbenismo che si prospetta al primo della classe Darren è - nella semplice triade presentatagli con entusiasmo dal padre: università, lavoro, famiglia - agghiacciante, ma anche il nulla che si presenta davanti al reprobo Steve - padre assente, madre ubriaca, istruzione deficitaria - è privo di qualsiasi attrattiva. Il cambiamento assume quindi le sembianze del soprannaturale, che interviene dall’alto a cambiare il corso degli eventi e a renderlo interessante. Il lato fantasy-horror pecca un po’ di già visto nelle atmosfere e nelle situazioni: tra freak, vampiri buoni, vampiri cattivi e crudeli burattinai dei destini altrui, la storia scorre senza approfondire, trovando appena il tempo per un rapido interludio sentimentale tra Darren e la donna scimmia interpretata con spigliatezza da Jessica Carlson. Il regista Paul Weitz cerca di mantenere un tono accattivante e brioso, ma quando l’azione comincia a prendere il sopravvento si ritrova un po’ a disagio nel governarla. Del resto, il suo background è fatto soprattutto di commedie, a partire da American Pie e passando per il simpatico About a Boy. Più in linea quello dello sceneggiatore Brian Helgeland che, prima di passare a film come Mystic River, si era formato proprio nell’horror, con gli script per Nightmare 4 - Il non risveglio, 976 - Chiamata per il diavolo e Autostrada per l’inferno, per non parlare della regia del plumbeo La setta dei dannati. Ma qui, la sceneggiatura è squilibrata, affastella fatti e situazioni con un certo disordine, introducendo personaggi su personaggi che rimangono senza spessore anche quando affidati a interpreti di nome (come la donna barbuta di Salma Hayek e l’azzimato vampiro di Willem Dafoe). Altri personaggi hanno invece sufficiente presenza scenica, anche se sempre in modo caricaturale ed esteriore: su tutti, Tiny, classico suave mellifluo, untuoso e letale, interpretato con gusto da Michael Cerveris. Tra salti acrobatici e sganassoni, il confronto finale cerca di ottenere attraverso gli effetti speciali - peraltro buoni - il pathos che non è stato sviluppato con la storia. E, come capita spesso nelle saghe chilometriche, la sensazione che qualcosa sia trattenuto per gli sviluppi futuri rende la conclusione un po’ troppo interlocutoria.

Codice Genesi

In un futuro non troppo lontano, circa 30 anni dopo l'ultima guerra, un uomo attraversa in solitudine la terra desolata che un tempo era l'America. Intorno a lui città abbandonate, autostrade interrotte, campi inariditi - i segni di una catastrofica distruzione. Non c'è civiltà, né legge. Le strade sono in mano a bande che ucciderebbero un uomo pur di togliergli le scarpe, o per un po' d'acqua… ma anche senza motivo. Ma non possono far nulla contro questo viaggiatore. Guerriero non per scelta ma per necessità, Eli cerca solo la pace, ma se viene sfidato elimina gli avversari prima ancora che si accorgano dell'errore fatale che hanno commesso. Solo un altro uomo in quel mondo in rovina comprende il potere che Eli detiene, ed è deciso a impadronirsene: Carnegie il despota di una precaria città di ladri e killer. Ma la figlia adottiva di Carnegie, Solara è affascinata da Eli per un altro motivo, la visione che lui offre di qualcosa che può esistere oltre i confini del territorio dominato dal patrigno. Non è un film facile Codice: Genesi (titolo banalizzante e troppo rivelatore al contempo rispetto all'originario The Book of Eli. Non è facile da definire e non sarà facile neppure per lo spettatore predisposto al genere 'post-catastrofe' così come si è venuto declinando negli ultimi anni. Perché qui la commistione è forte. A partire dalla scelta cromatica che permea tutta la vicenda e che si rivela particolarmente insolita. In cui si inserisce immediatamente la figura del cavaliere solitario (anche se procede a piedi) che ha dalla sua la forza di un sapere ormai perduto e che il Male (un Gary Oldman ormai specializzato in ruoli non precisamente conviviali) vuole ottenere per sé. Eli conosce la Parola ma sa usare le armi per difenderla e difendersi procedendo verso un finale in cui, di tappa in tappa, si procede verso uno sguardo sempre più interiore. Codice: Genesi non è un film facile anche perché adotta stili narrativi diversi. Alla scene di azione si succedono in più di un'occasione dialoghi corposi quasi si volesse prestare attenzione a un pubblico molto diversificato. C'è poi un versante citazionista che potrà dare fastidio ad alcuni e invece sollecitare la memoria cinefila di altri. Partendo da Interceptor per arrivare a Fahrenheit 451 innumerevoli sono le citazioni (od omaggi se preferite) che costellano il film. Che i fratelli Hughes (lontani dal grande schermo dal 2001 con From Hell) costruiscono tutto intorno a quello che una parte dell'umanità ritiene essere Il Libro di cui la memoria non dovrà mai essere smarrita. Gli Hughes propongono in materia una curiosa occasione di riflessione.

La valigia sul letto

Achille Lo Chiummo e la sua amata Brigida hanno avuto lo sfratto e come nuova dimora non hanno trovato di meglio che un cantiere della metropolitana. Come se non bastasse lei è costretta a travestirsi da polpetta per pubblicizzare la carne di un negozio e lui perde nel giro di un giorno, dopo anni, il lavoro all'anagrafe, per di più senza essere mai stato assunto. Come sfuggire ad un'esistenza tanto misera? Alterando dei vecchi documenti, cancellando una lettera dal cognome del nonno e ritrovandosi di colpo parente del boss pentito Antimo Lo Ciummo. Un piano apparentemente perfetto, se si eccettuano gli imprevisti che la convivenza con uno spietato camorrista sotto il programma di protezione testimoni può portare con sé. Terza fatica cinematografica di Eduardo Tartaglia, La valigia sul letto allarga il cast a nomi vicini (Casagrande, Mahieux) e lontani (Seredova) e amplia la distribuzione fuori dal territorio campano, forte di una scrittura a strati, che sotto gli abiti leggeri della gag verbale (“nell'intimo puoi chiamarmi Antimo”) e dell'allegra confusione partenopea di toni e caratteri, non si fa mancare il cappotto e l'impermeabile, vale a dire un copione narrativamente più che strutturato e autonomo e un gruppo di attori capaci, dai tempi comici rodati. E il cinema? Ebbene, a questo giro va senza dubbio riconosciuta a Tartaglia una confidenza in più con la macchina da presa, che gli permette talvolta l'exploit ludico (le sequenze da poliziottesco; Brigida che si cambia nome in Sophia e cita la Cruz di Volver; “la cagna” di Nunzia Schiano) e tal'altra l'omaggio intelligente, perché non c'è dubbio che dentro questa valigia, come portafortuna per il viaggio, ci sia il Totò cerca casa di Steno e Monicelli. Là come qui, tra aule scolastiche e cimiteri e il Colosseo soppiantato da un altro tempio, il centro commerciale, si affrontano i temi sociali più drammatici nascondendoli senza sforzo sotto la farsa. Ed è proprio nella sequenza dell'“A livella”, quando il trio Tartaglia-Casagrandre-Izzo, complice il contesto sepolcrale, si lancia nell'interpretazione della poesia di Totò, che i personaggi scritti si dimenticano un attimo dei loro compiti ed emerge, insopprimibile e più autentica del resto, la passione per l'improvvisazione, per il teatrino. Nella finzione, l'ispettore di polizia si tormenta chiedendosi come credono i Lo Ciummo di riuscire a mantenere l'incognito continuando a fare “'ste recite di carnevale”, ma fuor di finzione la conclusione non è dissimile: per quanto più attento alla verità dei luoghi e più sciolto e divertito nella tecnica di ripresa, il cinema di Tartaglia resta teatro filmato. Teatro esperto e strappa risate, con un numero da applauso - la faida tra la sorella di Achille e la sua compagna - e qualche coriandolo e stella filante di troppo.